07/05/09

INDIGNATI, AFASICI, IMPEGNATI E ASSENTI

Qualche anno fa in un articolo su Repubblica il giornalista Giuseppe D'Avanzo scrisse: "L'indignazione non serve a capire. Può infiammare l'opinione pubblica, forse. Per il resto lascia le cose come sono. Al più le confonde." Cioè, l'indignazione non basta ma bisogna agire, fare qualcosa, smuovere le acque stagnanti e dimostrare, coi fatti, che si sta facendo qualcosa, anche mettendo a rischio il proprio status, il proprio ruolo, la propria immagine o solo impegnandosi concretamente che alcune cose è possibile farle "a norma di legge".
Vivo una scuola che, per volontà del suo dirigente, mi ha chiesto di compiere il mio dovere di insegnante "limitatamente al mio ruolo", come se il mio ruolo fosse soltanto quello di fare bene il mio dovere, e dunque insegnare la disciplina per cui ho un determinato contratto di lavoro. Questa scuola mi ha chiesto di limitare le mie azioni critiche o, meglio, di astenermi dall'essere un interlocutore attivo o, per essere concreti, di farmi i fatti miei (come se i fatti miei riguardassero soltanto il mio orticello, i miei alunni, i miei registri, le mie ore di lavoro).

La scuola, e questa scuola che frequento da qualche anno, è concretamente impegnata, grazie ad alcuni dei suoi insegnanti più attivi, in progetti a favore della legalità, contro la dispersione scolastica, per l'assunzione di comportamenti civili e responsabili da parte degli alunni, da una parte; al tempo stesso, la scuola e questa scuola, non si indigna se sopravvive in strutture fatiscenti, fuori norma, in cui la sporcizia quotidiana (e non solo quotidiana) non viene rimossa, in cui gli atteggiamenti generali di totale afasia, quando non di rimozione coatta delle responsabilità civiche insite negli indirizzi educativi della struttura, sono all'ordine del giorno, e di tutti i giorni. In poche parole, che si bea della propria mancanza di indignazione e, di conseguenza, di una propensione collettiva a "non agire" per provare a migliorare le cose.

Questi comportamenti, non solo sono corroborati da tanti piccoli atteggiamenti generali in cui tutti fanno la loro parte (dirigenti, insegnanti, personale, allievi), collaborano alla visione, dall'esterno, che la scuola, tutto sommato, non risponda alle esigenze della società, delle famiglie, della politica, per cui è slegata dalla realtà (come se la "realtà" corrispondesse, aderendovi, al quadro esigenziale di una contemporaneità disfatta e disfattista). Ora, quae cum ita sint (mi si scusi il latinismo che sta per "stando così le cose", ma mi è venuto spontaneo), non resta che indignarsi "facendo", tappandosi il naso (non gli occhi), mettendo le mani dentro la brodaglia nauseabonda in cui siamo immersi e trovare il tappo che faccia evacuare altrove la merda. Come se bastasse, ma non basta: bisognerà pure ripulire i residui e trovare un senso, una strada, un luogo in cui sia chiara, limpida, trasparente l'azione di chi si muove per fare cose.

Chiudo, prosaicamente, con una sorta di assunzione di realismo, tratteggiato da ipotesi agathotopiane (si veda, al proposito, il lavoro di James Meade, premio Nobel per l'economia): la scuola, in generale e questa, può cambiare solo se accetta una discontinuità; se ha fratture, cambi di direzione condivisi e comprensibili; se si dà regole accettate da tutti; se i gruppi di persone che vi lavorano dentro (consigli, collegi, assemblee, commissioni, etc) hanno chiara la direzione che la scuola, tutta e questa, prende o prenderà; se accetta un grado zero (o un livello tre, per dirla con Troisi) in funzione di un proprio ruolo nella società; se agisce facendo, eliminando le scorie e le disuguaglianze. In cinque parole: se si prende un impegno. Ma un impegno chiaro e non sfuggente, aleatorio, ondivago, impercettibile, vago, impositivo e parziale. Già, perché il rischio è questo: dinanzi alla necessità collettiva di un impegno, non remunerato in busta paga, verranno meno i motivi di un cambiamento e le cose rimarranno inalterate, per poi venire inalberate solo al cambio di gestione (ministro o dirigente che sia). Può essere, questo, un argomento di discussione?

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